In questi giorni di chat rubate e sfiducie negate vorrei parlarvi di altri Paesi dove proprio la giustizia garantista e gli altri pilastri dello stato di diritto sono messi in dubbio. Sì, parlo sempre dell’Ungheria, di cui ho più volte scritto, soprattutto in occasione dei recenti pieni poteri presi dal PM Orban, ma che continua a sprofondare sempre più nella deriva anti-democratica.

Questa settimana il Parlamento ungherese ha votato per revocare il riconoscimento di cambio di sesso alle persone transgender nel Paese. Il che significa che in ogni occasione in cui i cittadini ungheresi transessuali saranno chiamati a mostrare i documenti saranno obbligati a fare coming out, rischiando molestie e discriminazioni. Ad oggi circa l’80% degli individui transgender in Ungheria non ha ancora avuto modo di cambiare legalmente il proprio sesso di appartenenza e da questa settimana non sarà più possibile.

Dalla famiglia tradizionale all’identità, come cambia la società ungherese con Orban

Da un recente sondaggio risulta che il 76% degli intervistati percepisce il Governo come assolutamente inefficace nel salvaguardare i diritti della comunità LGBTI e non c’è molto da stupirsi, visto che Orban sta riducendo questa comunità a cittadini di serie B. Lo slogan di Orban per le famiglie è “tre figli, tre stanze, quattro ruote” e l’obiettivo dichiarato è quello di costruire una ripresa economica con politiche a favore della natalità, della protezione dei valori cristiani e dell’identità nazionale. Tutto a scapito dei gruppi più deboli: immigrati, la comunità LGBTI e le donne.

La narrativa della famiglia tradizionale ha riportato le donne ungheresi indietro di un secolo, relegandole ad essere mogli e madri prima di ogni altra cosa. Al momento in Ungheria il 58% delle donne in età lavorativa è disoccupata. Il governo si interessa alle donne soltanto quando si tratta di incrementare la natalità. Lo scorso anno ha visto la luce la proposta per incentivare le giovani coppie ad avere figli: prestiti fino a trentamila euro, senza interessi e che vengono completamente cancellati una volta che la famiglia arriva ad avere tre figli. Non ci sono solo vantaggi economici per chi decide di mettere su famiglia: in Ungheria il congedo di maternità dura fino a 3 anni e le donne ricevono una forte pressione a livello sociale e familiare nel rimanere a casa con i propri figli piuttosto che tornare a lavoro. Il risultato è un’esclusione progressiva delle donne dal mercato del lavoro. Come corollario di questo disegno patriarcale, pochi giorni fa l’Ungheria ha rifiutato di ratificare la Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica nei confronti delle donne.

Inoltre, tenendo “sotto controllo” l’informazione (negli ultimi anni quasi 400 tra siti web, giornali, stazioni radio e canali televisivi ungheresi sono stati trasferiti ad un gruppo fondato nel 2018 e che è costituito da un gruppo di sostenitori di Orban) e riformando la giustizia riducendo l’indipendenza della magistratura, Orban in pochi anni è riuscito a plasmare lo Stato e la società ungherese instillando un diffuso senso di paura e un sentimento anti-immigrazione in un Paese tradizionalmente multiculturale. Infatti, nel Paese coesistono da secoli 4 religioni diverse (cattolicesimo, protestantesimo, ebraismo e islam) ed etnie diverse (slavi, romeni, russi e rom), senza poi dimenticare gli ungheresi di seconda generazione rientrati dai nuclei minoritari in Transilvania e Slovacchia. Dettagli, questi, che sembrano non trovare posto nella visione mono-culturale e mono-linguistica che, secondo Orban e il suo ministro degli esteri Szijjarto, costituisce la forza dell’Ungheria.

Dal rifiutare i richiedenti asilo, al costruire una zona di transito sul confine con la Serbia dove i rifugiati muoiono di fame, fino all’emanare leggi anti-immigrazione che condannano l’assistenza non autorizzata ai migranti, Orban strizza l’occhio a Salvini parafrasando lo slogan preferito dei leghisti: “Prima gli ungheresi”. Ma, i sovranisti (soprattutto leghisti) risponderanno che non c’è problema, visti i risulati dell’Orbanomics. Insomma, chiudiamo un occhio sulla questione dei diritti purché il Paese cresca. Un ragionamento comune anche a quello del Movimento 5 Stelle che strizza l’occhio alla Cina in cambio di qualche cesta di arance.

Ma i dati mostrano una realtà molto diversa: non esiste nessun miracolo ungherese.

La Orbaneconomics non esiste o, meglio, non funziona

Mito numero 1: la bassa disoccupazione è frutto di politiche lungimiranti

Partiamo dall’occupazione: in effetti il Paese registra un tasso di disoccupazione sotto la media UE, nel 2019 era il 3,4%. Peccato che se consideriamo i Paesi peer notiamo che sono tutti assolutamente allineati ai camerati magiari. La Polonia è al 3,3%, la Repubblica Ceca al 2,0%, la Romania al 3,9% e la Bulgaria al 4,2%. Quindi è ragionevole pensare che il tasso di disoccupazione ungherese sia maggiormente correlato ai trend di sviluppo che hanno riguardato trasversalmente l’Europa centro-orientale negli ultimi 10 anni, piuttosto che al genio del governo di Budapest, con buona pace di Salvini – che ancora nel 2018 tuonava contro “la sinistra che difende la UE dei banchieri” mentre in Ungheria “la disoccupazione è sotto al 5%”.

Un secondo punto citato dai fan di Orban fa riferimento alla diminuzione della disoccupazione dal 2010 ad oggi. Invitato da Giorgia Meloni ad Atreju (dimmi con chi vai…), lo stesso Orban aveva citato come risultato dei “tre pilastri” della politica ungherese (difesa della famiglia tradizionale, della tradizione cristiana e dell’identità nazionale) la miracolosa discesa della disoccupazione nel Paese durante i suoi mandati:  dall’11,2% (12%, secondo Orban, ma si sa che i sovranisti hanno problemi con i numeri) del 2010 al 3,4% nel 2019 (-7,8 punti percentuali).

L’ennesima intercessione del cuore immacolato di Maria? Sembrerebbe di no. Nello stesso periodo, la disoccupazione in quel paese di impenitenti alcolisti, europeisti e sodomiti che è l’Irlanda è diminuita di 9,6 punti percentuali. Nelle tre repubbliche baltiche (campionesse continentali di ateismo ed entusiasti membri dell’area euro), di una media di 12,3 punti percentuali. In Slovacchia, di 8,7 punti percentuali. Persino la Bulgaria ha portato a casa un dignitoso -6,1%.

Insomma, al solito verrebbe da suggerire agli Orban-boys di placare i bollenti spiriti: si tratta semplicemente di un Paese in via di sviluppo che, come altri, ha beneficiato un importante (ma atteso e trasversale ai vari Paesi dell’Europa dell’est) diminuzione del tasso di disoccupazione

Mito numero 2: la crescita economica ungherese è spettacolare

Secondo la vulgata sovranista, il risultato delle politiche economiche di Orban (“la Flat Tax per le imprese al 9% e per le persone al 15%” – come ricordava entusiasta il leghista Salvini) si rifletterebbe nella spettacolare crescita dell’economia ungherese. Una piccola Cina in salsa danubiana, con “l’economia che cresce del 4%”. Esaltante, non è vero?

Per la verità, se guardiamo il GDP a prezzi costanti riparametrato su base 100, i camerati magiari si sono fatti battere non solo dagli Irlandesi (che a botte di tech e matrimoni gay hanno toccato quota 181 vs. i 131 ungheresi) ma anche nell’ordine da Estonia, Polonia, Lituania, Romania, e Slovacchia. Se guardiamo allo stesso indicatore pro capite, la situazione è ancora più sconfortante (i camerati vengono sorpassati in curva anche dalla Bulgaria, notoriamente sempre in difficoltà nelle classifiche europee)

Ma anche ammettendo che crescano quantomeno quasi (quasi) al livello degli altri Stati dell’est-europa, non dimentichiamoci che può essere (in parte) dovuto ad un’imposta sul reddito delle società che ammonta al 9%, che si tratti di micro imprenditori o di colossi. Lo stesso dicasi per l’Irpef: l’imposta sul reddito delle persone fisiche in Ungheria è una flax tax al 15%, tra le più basse dell’Unione Europea. In questi giorni concitati di accuse a paradisi fiscali nessuno ha detto niente.

Forse che, come ho ripetuto più volte, non è solo la fiscalità a rendere un Paese attrattivo ma anche tutto il contesto? E nel caso dell’Ungheria, stiamo parlando di uno stato talmente poco attrattivo per gli investitori che per ottenere tassi di crescita più bassi di quelli della maggior parte dell’est Europa deve comunque scegliere un modello fiscale tra i più generosi dell’Ecumene.

E forse i sovranisti dovrebbero riflettere prima di usare due pesi e due misure nelle loro accuse.

L’UE deve intervenire ma per questo ha bisogno di più poteri

Ammettendo quindi che non si possa scusare l’Ungheria per i suoi comportamenti in nome della sua crescita economica, sono convinta invece che bisogna sanzionare in maniera convinta questo paese per la deriva illiberale che sta prendendo. Un Paese con queste leggi non può essere lasciato impunito.

Il problema è che non esiste clausola nei trattati europei per espellere Stati membri – e non credo sia questa la strada. Esiste meccanismo per punirli togliendo loro diritto di voto al consiglio dei ministri o fondi europei, ma l’attivazione di queste punizioni (art. 7 TFEU) richiede processi complessi e soprattutto voto all’unanimità che lo rende possibile su carta, impossibile nella realtà. Ieri il Presidente del Parlamento Europeo Sassoli ha criticato il diritto di veto nelle decisioni europee da parte dei singoli Stati membri. Sono assolutamente d’accordo: cominciamo da li per assicurarsi che comportamenti inaccettabili come quelli ungheresi non vedano l’UE e gli altri stati membri con le mani legate è proprio necessario?