Le cronache di questi giorni hanno riportato l’attenzione sul conflitto tra Armenia ed Azerbaigian per il dominio sul territorio del Nagorno Karabakh. Ma non è in realtà una cosa inattesa, infatti, gli scontri tra i due Paesi sono mai cessati totalmente e si susseguono sin dal 1994, anno dell’ufficiale cessate il fuoco tra le parti.

In molti pensano il conflitto sia di natura religiosa perché gli armeni sono cristiani e gli azeri musulmani ma in realtà lo scontro è puramente territoriale. Da anni ormai il Nagorno-Karabakh, che si definisce una Repubblica de facto e ambisce a ottenere un riconoscimento, sta cercando di gettare la basi della sua indipendenza nazionale attraverso diverse iniziative, come il referendum del 2006 sulla prima Costituzione e le elezioni presidenziali del 2007, entrambi non riconosciuti internazionalmente. Sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli l’Armenia, con la quale i politici locali intrattengono solidi rapporti militari e di difesa, alimenta la spinta indipendentista; l’Azerbaigian invece continua a sostenere l’annessione del Nagorno Karabakh al proprio territorio nazionale, rifacendosi principio di integrità territoriale.

Quando al dissolversi dell’Unione Sovietica il popolo del Nagorno Karabakh intraprese tutte le necessarie azioni legali per raggiungere l’autodeterminazione, non esisteva nessuna questione territoriale. Tuttavia, gli Azeri risposero all’iniziativa democratica dei Karabakhi con un’aggressione militare in piena regola. Nel disperato conflitto che ne derivò, le armi e i missili azeri distrussero la città secolare di Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, e inflissero gravi danni a tutti i villaggi circostanti, costringendo moltissime persone a diventare rifugiati di guerra.

Nel 1992 l’Armenia e l’Azerbaigian si dichiararono apertamente guerra per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh e l’Armenia costrinse le forze azere in quella che è l’attuale linea di confine, prendendo il controllo del Nagorno-Karabakh e di altri territori azeri. Con il cessate il fuoco del 1994 la regione rimase dunque sospesa tra la sovranità giuridica dell’Azerbaigian e il controllo de facto da parte delle forze armene.

Le radici profonde del conflitto tra Armenia e Azerbaigian

I trascorsi storici di Armenia e Azerbaigian non sono semplici ed è su questi argomenti che i loro sentimenti nazionalistici crescono: la memoria armena è permeata della pulizia etnica iniziata nel 1914 per mano del governo turco, storico alleato azero, il quale temeva gli armeni potessero diventare un nemico interno. Pensate che ad inizio 900, la comunità armena in Turchia contava circa 1.800.000 persone, che si ridussero, in seguito al massacro perpetrato dai turchi a sole 123.602 unità (come rilevato dal primo censimento della Repubblica turca nel 1927). Non tutti furono uccisi, circa 600 mila persone riuscirono a mettersi in salvo fuggendo, ma i numeri fanno comunque spavento.

L’Armenia gode di maggiori simpatie da parte della comunità internazionale a causa del suo tragico passato, l’Azerbaigian invece ottiene sostegno sulla base delle proprie rivendicazioni di integrità territoriale e per la sua importanza in ambito energetico.

In Azerbaigian la ripresa del Karabakh è considerata una tema politico di primaria importanza, a cui dedicarsi con ogni energia a disposizione. Per il governo di Baku si tratta di un efficace strumento mediatico capace di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi sociali e politici di un Paese in crescita grazie ad un’economia che dipende quasi completamente dagli idrocarburi – oltre il 90% delle esportazioni. Le risorse energetiche sono, infatti, la posta messa in gioco dal Paese per aprirsi agli investitori occidentali, che grazie al “Contratto del Secolo” del 1994 hanno avuto accesso allo sfruttamento delle risorse nazionali di gas e petrolio. Col tempo l’Azerbaigian è divenuto un tassello fondamentale nella strategia di diversificazione delle forniture energetiche dirette verso occidente e in particolare verso l’Europa e, grazie a tale scelta strategica, l’Azerbaigian ha beneficiato di un vero e proprio boom economico, con tassi di crescita medi del 12% nell’ultimo decennio e affermando la sua leadership economica nel Caucaso meridionale.

Sul piano internazionale la “diplomazia degli oleodotti” azera ha spinto progressivamente il Paese nell’orbita occidentale permettendogli di diventare un partner solido e affidabile, anche grazie ad una stabilità politica che ha fornito garanzie certe agli investimenti delle compagnie occidentali. Questo contribuisce a spiegare perché l’UE, pur inserendo l’Azerbaigian nel quadro della politica di vicinato (e oggi nel Partenariato orientale), abbia tentato solo debolmente di promuovere nel Paese la propria agenda di democratizzazione e di difesa dei diritti umani, non potendo contare su quell’asimmetria del potere che sta alla base dei meccanismi di condizionalità. Come i Paesi europei, anche Stati Uniti sono interessati alla crescita del Paese, soprattutto promuovendone un ruolo di contenimento in chiave antirussa.

A complicare la faccenda ci sono gli interessi di Mosca e Ankara, sempre più in conflitto per esercitare la propria influenza sulla regione caucasica. Mosca in particolare vede nell’Azerbaigian un rivale capace di diversificare l’approvvigionamento energetico europeo, ma per ora non può intervenire perché scatenerebbe una reazione turca e, probabilmente, della Nato stessa.

Perché la questione ci tocca da vicino

C’è un delicato equilibrio tra l’interesse economico e quello diplomatico/culturale: il Governo italiano è più che interessato all’Azerbaigian perché il Paese è un nostro fornitore di gas e petrolio (a fine ottobre il TAP, il gasdotto che trasporterà il gas da Baku a Lecce coprendo i mercati europei, diventerà totalmente operativo) quindi, seppur restando in buoni rapporti con l’Armenia grazie alle profonde intese culturali e religiose (come dimostra la recente visita italiana del Patriarca Karekine II, il Catholicos di tutti gli armeni), vede nell’Azerbaigian un partner economicamente e politicamente più appetibile. Secondo gli ultimi sviluppi, la Farnesina ha chiesto alle parti la cessazione delle violenze e l’avvio di ogni sforzo per prevenire un’ulteriore escalation, ma considerati i rapporti con ambo le parti difficilmente si spenderà per promuovere una risoluzione pacifica. A questo punto mi chiedo se intendiamo lasciare campo libero ad altri Paesi come la Francia, nonostante i nostri interessi con entrambi i Paesi e la presenza della forte comunità armena in Italia.

E l’Europa invece? La Commissione intende muoversi per promuovere la pace, uno dei nostri valori fondanti, in una zona così vicina a noi e così centrale per i nostri interessi geopolitici ed energetici?