Si possono dire molte cose sul modo in cui questa emergenza Covid-19 sta venendo gestita. Anche se sono certa che le nostre Istituzioni stiano facendo del loro meglio per tutelare e salvaguardare la popolazione, vorrei tornare su un problema molto importante che, se fosse stato affrontato in precedenza, forse ci avrebbe aiutato a gestire la crisi sanitaria più agevolmente.

Anche se ormai la situazione sembra vagamente rientrata, grazie anche alla mobilitazione nazionale di moltissimi medici volontari,  l’emergenza ha puntato i riflettori sull’inadeguatezza del nostro Sistema Sanitario Nazionale che, già tendenzialmente in sotto-organico, si è trovato a far fronte alla penuria di personale medico e infermieristico da impegnare nella battaglia contro il virus.

La gestione dell’emergenza

Per far fronte alla mancanza di personale è stato necessario ricorrere ad alcune soluzioni drastiche, come il richiamo in servizio di medici in pensione e l’assunzione di molti neo-laureati per garantire la continuità assistenziale o da impiegare nelle strutture di pre-triage al fine di valutare i casi sospetti e individuare poi i pazienti positivi, senza però potersene occupare.

Ma cosa comportano, in concreto, queste decisioni?

Per quanto riguarda i neolaureati la perplessità, espressa anche dai loro colleghi più anziani, è che la scelta di impiegare dei giovani medici , per quanto volenterosi, possa essere più un ostacolo che un aiuto poiché manca una solida esperienza sul campo. Il tirocinio in reparto durante gli anni di studio non è sempre sufficiente e il “reparto” in certe università si frequenta ancora troppo poco. Quindi i giovani laureati spesso non hanno ancora assimilato le norme di sicurezza che in un’unità Covid sono doppiamente fondamentali, a tutela di sé stesso e del paziente.

Per quanto concerne i medici in pensione il problema maggiore è legato alla fascia d’età. Si tratta di persone che hanno minimo dai 65 in su (anche se mi è stato segnalato il caso di un medico con più di 85 anni), ovvero appartenenti alla fascia di età più esposta alle complicazioni che questa malattia comporta.

La carenza di specializzandi

Bisogna anzitutto chiarire un concetto: in Italia non mancano i medici, mancano gli specialisti. E per avere degli specialisti servono delle borse di specializzazione, che storicamente in Italia sono troppo poche. Pensate che quest’anno sono stati aperti bandi per un totale di circa 8 mila borse di specialità, a fronte di una domanda di 20/22 mila neolaureati che ne fanno richiesta.

Attualmente nel nostro Paese ci sono circa 8 mila laureati “in arretrato” che aspettano da più di un anno di iniziare un percorso di specializzazione. Anche per far fronte a questo problema il Governo si era riproposto di prendere la palla al balzo e si era impegnato ad inserire 5 mila ulteriori borse di specializzazione nel decreto Cura Italia, promessa poi disattesa.

Cosa fare per migliorare

Anche se è indubbiamente la prima cosa da fare, l’aumento delle numero di borse potrebbe comunque non essere abbastanza per risolvere tutti i problemi.

Attualmente nel nostro Paese, le borse di specialità vengono assegnate da un’università di riferimento, che riceve dei fondi dal Ministero dell’Istruzione, e si occupa di inserire lo specializzando in un ospedale con cui collabora. Il medico, quindi, non è un dipendente dell’ospedale e spesso si ritrova a lavorare con un autonomia ridotta. I limiti variano da ospedale ad ospedale, ma per dare un’idea, a rigor di norma, uno specializzando non può firmare una cartella clinica e non può dare risposte alle domande di un paziente.

Andrebbe quindi rivisto in toto l’organizzazione del percorso di specializzazione. Un esempio interessante arriva dalla Germania, dove lo specializzando è assunto direttamente dall’ospedale e da esso stipendiato in quanto dipendente. Di conseguenza, sono gli ospedali a decidere quanti posti erogare per ciascuna specialistica in base alle esigenze, il che permette di modulare più facilmente la richiesta. Inoltre, a differenza di quanto accade in Italia dove il test è nazionale e viene fatto circa una volta all’anno, le domande posso essere presentate in momenti diversi dell’anno e le strutture ospedaliere a cui fare la richiesta sono scelte direttamente dai candidati, senza obbligarli a cambiare regione.

Quindi, oltre a ringraziare il personale sanitario con manifestazioni di affetto e solidarietà, dovremmo guardare anche ai problemi della classe medica e cercare di contribuire alla loro risoluzione, manifestano un tipo di solidarietà più pratica. E cerchiamo di non dimenticarcene una volta usciti da questa crisi.