La retorica di questi mesi ha trasformato in “angeli” svariate categorie professionali: medici, infermieri, operatori sociosanitari, forze dell’ordine, mamme, mammi, diaconi, e via dicendo. Tuttavia, soprattutto nell’ultimo periodo abbiamo finito per dimenticarci, a parte qualche sporadico sprazzo retorico di una delle figure maggiormente in prima linea nella guerra al Covid-19: quella dei ricercatori.

Ovviamente tutti sappiamo che esistono, più per sentito dire che per conoscenza diretta e ce li immaginiamo chini su provette e alambicchi nei loro camici bianchi. Ma chi sono, e cosa fanno veramente, i ricercatori?

Potremmo dire molto genericamente che chi fa ricerca si impegna a trovare soluzioni nuove, per risolvere un problema, non ancora disponibili sul mercato. È una definizione che applica bene a tanti campi diversi e non solo a quello medico scientifico: la ricerca e sviluppo anche una delle funzioni chiave delle aziende manifatturiere che vogliono innovare e restare competitive sul mercato.

A questo punto è utile fare una distinzione tra due grandi campi di ricerca: la ricerca di base e la ricerca applicata. Prendo in prestito la definizione fornita da Treccani:

La ricerca di base (o fondamentale) è considerata un’attività sperimentale o teorica avente come scopo l’ampliamento delle conoscenze, di cui non si prevede una specifica applicazione o utilizzazione. La ricerca applicata è quella ricerca originale svolta per ampliare le conoscenze, ma anche e principalmente allo scopo di una pratica e specifica applicazione. Lo sviluppo sperimentale consiste in un’attività destinata a completare, sviluppare o perfezionare materiali, prodotti e processi produttivi, sistemi e servizi, attraverso l’applicazione e l’utilizzazione dei risultati della ricerca e dell’esperienza pratica.

Tendenzialmente la ricerca di base viene penalizzata dagli investitori privati (aziende) a causa dei suoi elevati costi di avvio, i tempi e l’incertezza sui suoi possibili sviluppi commerciali, che spesso arrivano dopo anni o decenni. Questo non la rende meno importante della ricerca applicata, anzi, la rende fondamentale.

La ricerca applicata, infatti, trova il suo terreno fertile combinando le scoperte della ricerca di base con le esigenze di mercato. Per questo motivo i privati sono molto più interessati a finanziare questo tipo di attività o costruendo funzioni ad hoc all’interno delle proprie strutture, oppure con meccanismi di open innovation attraverso investimenti in università, centri di ricerca o startup innovative.

La situazione in Italia

Quando si dice che ‘’In Italia non si riesce a fare ricerca’’ ci si riferisce solitamente alla ricerca di base, quella che si fa dentro le università e viene finanziata dallo Stato o dalle fondazioni benefiche (come per esempio Telethon e dell’Airc). In generale i dati indicano che i finanziamenti statali in Italia sono più bassi rispetto alla media europea (dato che peggiora guardando il paragone con l’area OCSE).

L’attribuzione degli stanziamenti ministeriali agli atenei avviene in base al track-record di risultati positivi ottenuti negli anni. Ne consegue che le Università che hanno raggiunto buoni risultati continuano ad accaparrarsi i finanziamenti più cospicui, mentre le altre vedono ridursi di anno in anno il loro budget, in un circolo “meritocratico” che si auto-alimenta. In questo modo il sostentamento ai progetti ai team di ricerca che non portano risultati scende di anno in anno e con esso la qualità dei progetti che questi team possono realizzare.

Tuttavia, la logica meritocratica che ben potrebbe funzionare in altri ambiti, qui fa un po’ cilecca. Infatti, la scienza non dà sempre risultati certi e non è detto che l’insuccesso di un lavoro sia determinato dalla semplice imperizia di chi lo conduce, ma anche da pura e semplice ‘’sfortuna’’. Spesso poi sono i progetti più ambiziosi (e potenzialmente più dirompenti) quelli più difficili da realizzare.

E i ricercatori?

E i ricercatori in tutto questo? Come vive chi lavora materialmente ai progetti di ricerca?

Durante il dottorato i giovani ricercatori percepiscono uno stipendio esiguo, che va dai 1.000 ai 1.200 euro al mese. Poca roba se ci si trova a vivere in una grande città, come Milano o Roma (in termini pratici ci si paga a malapena a cibo e affitto). Chi finito il primo dottorato non abbandona il mondo dell’università solitamente lo fa con l’ambizione di fare carriera accademica, diventando magari un giorno professore, visto che la figura del ricercatore a tempo indeterminato di fatto non esiste più. Quando va male si continua a finanziare il proprio lavoro con bandi di finanziamento europei o di fondazioni private, diventando a tutti gli effetti dei liberi professionisti a caccia di finanziamenti.

I ricercatori RTDB e RTDA, che significa ricercatori a tempo determinato di classe A e B, hanno dei contratti che scadono nel momento in cui il progetto di Ricerca si conclude e non hanno nessuna garanzia di poterne iniziare un altro subito dopo. Ciò comporta un pesante stato di precarietà e questo è forse il motivo principale per il quale i nostri ricercatori decidono di andare all’estero e lavorare per laboratori stranieri.

La precarietà di per se non è un problema enorme quando hai uno stipendio in grado di garantirti sicurezza anche nei momenti di “pausa lavorativa”, oppure un sistema di welfare state solido che ti accompagna attraverso i cambiamenti professionali. Purtroppo in questo Paese la precarizzazione del lavoro non è stata accompagnata da misure che lo rendessero sostenibile, anche e soprattutto in ambienti come la ricerca, dove si è creato un dislivello enorme tra chi è sul campo d 30 anni e ora magari ha una cattedra in qualche università e chi, invece, ha iniziato negli ultimi 10-20 anni.

L’unica cosa che posso dire è che il settore della ricerca in campo biomedico è di vitale importanza per il futuro del nostro Paese e dovremmo tenerci ben stretti i lavoratori di questo settore, valorizzandoli e investendo più risorse su questo lavoro, garantendo borse più alte e stipendi dignitosi.

Quello della ricerca è un mondo complesso visto da fuori e per elaborare soluzioni più complesse mi piacerebbe parlare con qualche ricercatore e fare degli approfondimenti. Quindi ricercatori di base fatevi avanti: info@giuliapastorella.eu.