Nel mezzo della crisi di governo e della pandemia ha trovato poco spazio la cronaca e l’analisi di quanto sta avvenendo in Myanmar, uno stato dove la democrazia si è imposta solo nell’ultimo decennio dopo un lungo e tedioso regime militare durato oltre cinquant’anni. La nascita di questa democrazia è però soggetta a un accordo tra la giunta militare, il Tatmadaw, e i civili, con in testa il principale partito, la National League for Democracy. Questo accordo assicura ad ogni elezione il Ministero dell’Interno al Tatmadaw, permettendogli di governare sui confini e sulla difesa militare. L’accordo dà anche il potere alle milizie di eleggere il 25% del Parlamento, di fatto impedendo la formazione di maggioranze qualificate in grado di apportare riforme costituzionali.

Per oltre una decina d’anni questo accordo ha dato vita a una pacifica convivenza al potere tra militari e civili, una situazione durata fino al primo febbraio, quando i militari hanno deciso di dire la parola fine. Le forze armate hanno deposto il neo-eletto governo trasferendo i poteri dell’esecutivo al capo dell’esercito Min Aung Hlaing, sostenendo che le elezioni, tenutesi a novembre 2020, abbiano avuto delle irregolarità e che si sarebbe dovuto rimandare l’insediamento del nuovo parlamento.

Da questa imposizione di forza sono scaturite rivolte in ogni parte del Paese, dai centri urbani alle aree rurali più disperse. Una delle azioni più significative è stata un’azione di disobbedienza civile iniziata da alcuni dottori, che ha portato una larga fetta della popolazione a scioperare.

In risposta a queste proteste, leggi fondamentali come la tutela degli arrestati, l’obbligo di aver una motivazione per una perquisizione o per un arresto sono state sospese, inoltre internet è stato spento in tutto il Paese non permettendo le comunicazioni né all’interno né all’esterno del paese.

Le proteste in Myanmar - COPYRIGHT EPA

Le proteste in Myanmar – COPYRIGHT EPA

Gli impatti della censura su internet

La censura di internet e i limiti imposti alla popolazione, a cui viene impedito di esprimersi e organizzarsi, certificano il golpe in atto, rendendo evidente che quella dei brogli elettorali è soltanto la scusa usata dai militari per giustificare le loro azioni. In pochi giorni si sono annullati sforzi che dal 2014, con l’abolizione della censura sul web, avevano dato vita ad una rivoluzione digitale nel Paese e avevano portato ad un tasso di alfabetizzazione digitale della popolazione dell’80%.

Facebook, che è il principale media digitale del Paese, ha contrastato le azioni della giunta militare cancellando profili e post contenti notizie false riguardanti il golpe. Dopo ripetute proteste, arrivate anche da parte delle società di telecomunicazioni, internet è stato parzialmente riaperto, anche se i principali social media rimango censurati.

Viene da chiedersi se siamo giunti ad un punto dove anche il potente Facebook non può più nulla. Situazioni così estreme come il golpe in Myanmar ci fanno riflettere sulla mission iniziale di queste piattaforme, che volevano essere strumenti al servizio della democrazia e del dialogo, in grado anche di agire come presidio di espressione e contrasto agli abusi di potere. Ora che in molti Paesi si sta riflettendo a come regolarne le derive, ricordiamocene.