Quando in Europa parliamo di Africa, lo dipingiamo come un continente unico, un tutt’uno in termini geografici, culturali, etnici. Ma è impossibile parlare di Africa in generale: si tratta di un continente così vasto e variegato a livello climatico, culturale ed economico, che stupisce quanto spesso venga ritratto come un luogo deserto e omogeneo.

Da noi europei visto per secoli come territorio di conquista coloniale, molte delle nazioni che costituiscono il continente africano si sono costituite da appena sessant’anni e, dopo una serie di guerre civili, hanno appena iniziato a vivere un periodo di relativa stabilità. Ma questa stabilità, nelle ultime settimane, è stata messa a dura prova dall’emergenza globale covid, che ha scosso – e rischia di scuotere ancora più gravemente – anche il continente africano.

L’impatto del nuovo Coronavirus in Africa

I numeri del contagio in Africa sono fortunatamente ancora ridotti, anche se in rapida ascesa. Come ci ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità è solo questione di quando, non di se succederà anche lì. Anche se la bassa età media della popolazione africana potrebbe limitarne la mortalità, il pericolo sanitario resta comunque altissimo, soprattutto per i bambini. Infatti, il Coronavirus sta bloccando molte delle campagne di vaccinazione per poliomielite, Ebola e altre malattie infettive, che infestano in particolare l’area subsahariana. Senza questi vaccini e con le scarse misure igieniche possibili in queste regioni (solo il 15% della popolazione del Sahel ha accesso ad acqua pulita e sapone, secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2015), il Coronavirus potrebbe indirettamente causare la morte di migliaia di bambini.

A questo si aggiunge anche che in molte zone le situazioni di conflitto non fanno che rendere la lotta contro il virus più complessa. Un esempio fra tutti è quello libico, dove la popolazione è costretta a rifugiarsi in spazi sempre più ristretti nel centro della capitale per ripararsi dall’assedio del generale Haftar, nella quasi indifferenza dei Paesi europei. Il direttore generale dell’OMS, già ad inizio marzo, ribadiva che «siamo forti come l’anello più debole della catena», infatti le nazioni con i sistemi sanitari più deboli hanno un impatto sul mondo intero. In sostanza, se vogliamo sconfiggere il virus, dobbiamo partire dall’Africa.

Intervistato dal Corriere della Sera, l’alto commissario dell’ONU per i rifugiati, Filippo Grandi, punta l’indice sulle situazioni di sovraffollamento di cui è stato testimone durante una recente visita nella regione del Sahel: «Lì ho visto una delle situazioni umanitarie più catastrofiche della mia vita. Se il Covid-19 esplodesse lì, sarebbe l’apocalisse».

Ad anticipare poi la crisi umanitaria c’è poi già una delicata situazione economica in diverse regioni del continente. Da un lato, infatti, la gran parte dei migranti vivono alla giornata con salari precari che in caso di lockdown saranno i primi ad essere cancellati. Dall’altro lato, l’economia africana è basata in gran parte sull’esportazione di prodotti alimentari e materie prime (come il petrolio) che stanno vedendo una contrazione significativa in questo periodo di crisi globale. Purtroppo, soltanto poche delle nazioni africane hanno un’economia sufficientemente diversificata per far fronte a questa recessione.

Il timing di questa crisi, insomma, non poteva essere peggiore. Con la creazione dell’African Continental Free Trade Area (la più grande area di scambio commerciale al mondo) ed una crescita del prodotto interno lordo continentale intorno al 5%, l’Africa stava dimostrando negli ultimi anni di avere gli strumenti per fare sistema e riscattarsi sul lungo periodo. Tuttavia, per superare questa crisi economica serve una solidità di cui questi Paesi oggi non dispongono e c’è il serio rischio che queste giovani nazioni ricadano come in passato in un circolo di alti debiti pubblici e bassa crescita.

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto per quest’anno la prima contrazione del PIL africano dal 1992, che scenderà di circa 1,6 punti percentuali, sia per la perdita di domanda interna, che per la riduzione dei capitali dall’estero e il crollo del prezzo del petrolio.

Il ruolo dell’Europa nel continente africano

Sulla spinta di alcuni suoi settori industriali, l’Italia ha avviato da alcuni anni una strategia di lungo termine sul territorio africano. Grazie ad aziende come ENI, siamo diventati uno dei principali investitori del continente.

Ovviamente non siamo l’unico Paese europeo ad avere interessi in Africa; sia Francia che Germania sono interessate commercialmente al mercato africano, che promette uno sviluppo senza precedenti. Per questo, da anni la Commissione Europea sta cercando di coordinare una politica comune con i pochi fondi a disposizione. Questa strategia europea ha avuto un punto di svolta con l’insediamento della Commissione von der Leyen. Ad inizio marzo, l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell, insieme alla commissaria per i partenariati internazionali Jutta Urpilainen, ha presentato la nuova strategia della Commissione per l’Africa, che verrà approvata ad ottobre.

La strategia si basa su 5 pilastri:

  • transizione verde e accesso all’energia
  • trasformazione digitale
  • crescita sostenibile e lavoro
  • pace, sicurezza e governance
  • migrazione e mobilità

«L’Africa è il partner naturale e il vicino dell’Unione Europea. Insieme possiamo costruire un futuro più prospero, più pacifico e più sostenibile per tutti», ha dichiarato in una nota la presidente von der Leyen. L’intento pare quindi quello di superare l’ormai obsoleto modello asimmetrico in favore di uno “sviluppo comune” tra partner economici alla pari. Questi processi erano partiti però in periodo pre-crisi.

Ora, investimenti molto più ingenti sono necessari. I governi del G20 hanno congelato il pagamento del debito per tutti i Paesi africani fino a fine anno per alleviare nel breve termine il contraccolpo economico. La presidente della Commissione europea ha inoltre annunciato il 7 aprile scorso che l’Unione sbloccherà quindici miliardi di euro per i partner al di fuori del continente, devolvendoli principalmente in Africa.

E la Cina?

In questo contesto, è necessario tenere d’occhio anche la Cina, che da decenni sta lentamente espandendo la sua influenza in Africa utilizzando il suo “soft-power” commerciale. Il gigante asiatico investe soprattutto in infrastrutture, ottenendo contratti vantaggiosi per estrazione di materie prime e prodotti alimentari e adotta sempre la strategia di non intervenire direttamente nella politica locale, sorvolando rispetto a trasparenza o standard socio-politici, che sono presupposti necessari invece per gli investimenti europei.

Allo stesso tempo, sta però investendo molto nel formare una nuova classe politica africana, offrendo borse di studio affinché i giovani vadano a studiare nelle università cinesi. I principali partner commerciali sono il Sud Africa e l’Angola, dove un intera città è stata costruita “made in China”. Inoltre, la Cina ha instaurato il suo primo porto militare-commerciale in Gibuti, nel Corno d’Africa, per controllare lo sviluppo marittimo delle sue “Vie della Seta”, pilastro strategico della politica commerciale cinese. Infine, l’Africa rappresenta per la Cina un mercato ideale dove vendere la merce prodotta che non riesce a trovare sbocco nella domanda interna. Questo comporta però un ingresso su questi mercati emergenti africani con prezzi molto bassi che non favoriscono la crescita e lo sviluppo di industrie locali.

In seguito all’esplosione della pandemia da Coronavirus, la Cina ha inviato ingenti quantità di materiale sanitario in Africa (come in Europa), anche per non abbandonare la propria molta manodopera qualificata che opera su quei territori.

L’occasione per il rilancio della centralità del Mediterraneo

Come abbiamo visto, la situazione attuale del continente africano è molto simile allo scenario europeo di metà ‘900. Quella volta gli Stati Uniti agirono con il famoso piano Marshall, un intervento dell’amministrazione statunitense che servì a rilanciare l’economia europea al termine di due guerre mondiali, tra il 1948 ed il 1952, favorendo la nascita di uno stretto legame commerciale tra i continenti ed evitando che l’Europa finisse nell’area di influenza comunista.

Un investimento in finanziamenti e infrastrutture su larga scala potrebbe evitare una catastrofe umanitaria ed economica, favorire una maggiore penetrazione europea nel mercato africano, che rappresenta il più importante a livello mondiale per materie prime e agricoltura, e dove la popolazione è destinata a raggiungere i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. Infine allontanerebbe l’Africa dalla sfera di influenza cinese.

Allo stesso tempo, la nascita di un rapporto economico simmetrico potrebbe, a differenza del modello cinese, favorire uno sviluppo delle industrie locali, migliorando a cascata la qualità di vita della popolazione e riducendo le diseguaglianze sociali. Un’importante conseguenza sarebbe la riduzione delle migrazioni verso il nostro continente, che sono destinate solamente ad aumentare con la crescita demografica se le condizioni rimarranno simili a quelle attuali.

Inoltre, estendendo i principi verdi che contraddistinguono l’attuale operato europeo al continente africano, si potrebbe ridurre il disboscamento in atto nelle zone tropicali. Questo comporterebbe anche una diminuzione del rischio di contatto tra animali selvatici ed umani, che è la principale causa della proliferazione di virus infettivi come il Coronavirus.

L’Unione Europea ha tutte le carte in regola per porsi come attore principale in questo progetto, anche forte della centralità acquisita nella gestione Covid durante le ultime settimane, in particolare in seguito alla raccolta fondi organizzata dalla Commissione. Per l’Africa qualcosa è già stato fatto, ma misure più drastiche sono, e saranno nel prossimo futuro, quanto mai necessarie.